Professione Pasticcere: Intervista a Francesco Elmi
24 Giugno 2019
Francesco, perché la pasticceria?
Perché sono goloso. Alla base di tutto c’è la mia grande golosità. A dieci anni, all’inaugurazione del negozio di tessuti di mia cugina, mi presi una strigliata perché mangiai da solo tutto il vassoio pensato per gli intervenuti all’evento, mi sentii umiliato e lì decisi che io, questi dolci, dovevo imparare a farmeli da solo. Il mio è stato da sempre un universo al femminile: mia madre aveva cinque sorelle, quindi ho vissuto tutta la mia infanzia e adolescenza fra le cure di sei donne da cui ho imparato molto, in cucina ma anche nella mia curiosità verso il nuovo, nel cimentarmi in cose sempre nuove e diverse. Gli uomini stavano in cantina a fare il vino, io in cucina a imparare a fare i tortellini e, ritagliandomi i miei spazi di sperimentazione, le torte domestiche, che man mano divennero di mio appannaggio: uno spazio di mia esclusiva competenza. Non ho mai avuto dubbi: non mi interessava cucinare qualsiasi cosa – sebbene negli anni imparai a farlo anche per semplice emulazione – il mio target di rifermento sono stati da subito i dolci. A nove anni tormentavo mia madre perché mi aiutasse con le meringhe, con le sfrappole, e lei mi assecondava, nonostante non fosse mai stata una sua passione. I miei studi seguirono questo amore, nonostante la famiglia volesse per me studi diversi. Terminata la scuola, con la stessa determinazione mi prefissi di andare a fare gavetta da Calderoni, una pasticceria storica della mia città: non sono stato accettato subito, per un mese, tutti i giorni, sono andato dalla proprietaria chiedendole di darmi un’opportunità e alla fine l’ebbi. Cominciavo alle 5 e uscivo alle 19. Per due anni il mio giorno di riposo significava passare l’intera giornata a riprendermi dalla fatica… mia madre si domandava come facessi a reggere ritmi tanto duri e devo ammettere che non fu facile, di tanti “insegnanti sul campo” quello che incontrai in quella realtà fu una cima difficile da scalare. Trent’anni fa era diverso, era frequente incontrare rapporti di lavoro simili a questo: non era tanto una scuo- la di pasticceria, quanto una di resistenza, di disciplina. Ora non sarebbe possibile adottare modalità simili. Tuttavia imparai un metodo, imparai la cura nel fare tutti i pezzi uguali, a rispondere in prima persona, e in modo assai grave, per tutti gli errori commessi. A diciotto anni mi sono licenziato. Un cliente della pasticceria mi fece la proposta di aprire un locale alle sue dipendenze e io mi ritrovai da sottoposto a es- sere responsabile del laboratorio: responsabile di me stesso, in realtà, perché tutto era sulle mie spalle. Lì cominciai a fare il gelato e poi, annoiandomi a fare sempre le stesse cose, iniziai a sperimentare dolci di mia invenzione: fra i primi – ricordo – riprodussi la struttura dello stadio dall’Ara in occasione dei mondiali di Italia ’90. Una prima wedding cake ante litteram. Da autodidatta. A diciannove anni e mezzo ero direttore del locale. A vent’anni l’esperienza si concluse e preferii tornare prima da Calderoni, con un altro piglio, poi in una nota pasticceria – Fontana – a San Lazzaro. Si guadagnava tanto, soprattutto per un ragazzo ancora molto giovane.
Erano gli anni di una Bologna in crescita continua e questo creava anche alcune dicoto- mie: cominciare il lavoro di notte aveva il vantaggio di concludere la giornata lavorativa intorno alle undici, i pasticceri allora smontavano e si dedicavano ad altro, ma per chi, come me, aveva ancora energie da spendere e voglia di fare significava avere un sacco di tempo libero. Fu così che cominciò la mia collaborazione con l’azienda Fabbri aprendo un nuovo capitolo della mia vita. La Fabbri è un’azienda importante, che già allora ave- va interessi e canali aperti soprattutto all’estero. Cominciai con la fiera internazionale Sigep a Rimini, lavavo teglie e davo una mano, poi un giorno, per una casualità, mi tro- vai a spiegare a un pubblico di professionisti come utilizzare i vari prodotti aziendali. In quegli anni gli operatori producevano, mentre i comunicatori interloquivano con il pubblico e la clientela, io mi trovai a fare entrambi. Oggi è prassi comune, ma non lo era allora. Divenni la voce di questa grande azienda: ogni anno organizzavo show cooking quando non si sapeva si sarebbero chiamati così. Imparai a rapportami con l’industria alimentare, ne compresi i procedimenti e i vantaggi: sebbene non rappresenti il mio modo di approcciare la pasticceria in laboratorio, tutto ciò che è stato possibile semplificare industrialmente rappresenta senza dubbio un business che ha saputo innalzare di molto la qualità media del prodotto. L’industria del gelato è ancora impostata per l’80% sull’uso di semipreparati e macchine sempre più sofisticate che semplificano l’attività fino a renderla estremamente semplice. Da lì sono partiti i corsi, le docenze in giro per il mondo: posso dire che grazie al mio lavoro l’ho girato tutto.
Questa collaborazione è stata, e resta, preziosa per la mia crescita personale e professionale: quando decisi di aprire la mia prima attività da titolare, il Tiffany, gestire queste due parti del mio lavoro mi portò a ritmi ancora più serrati, ma non rinunciai mai all’opportunità di uscire dal laboratorio per confrontarmi con tutto quello che c’è fuori, in Italia ma anche e soprattutto all’estero.
Diventare imprenditore di me stesso mi permise anche una svolta nella tipologia del prodotto offerto. Mi diede la possibilità di sperimentare una pasticceria a mia misura, più creativa, che abbandonasse certi retaggi cari a quella tradizionale. Al Tiffany cominciai a proporre mignon al taglio e dolci glassati moderni, erano cose che ancora non si vedevano molto in città. La mia esperienza fieristica mi aveva fatto crescere, avevo moltiplicato i modelli e i punti di riferimento e, grazie al maestro Emanuele Saracino, le mie conoscenze sulla pasticceria francese e sulle sue potenzialità mi ave- vano dato una spinta del tutto nuova.
In quegli anni moltiplicai le consulenze che fornivo a diverse aziende: non più solo Fabbri ma anche Carpigiani, Italiazuccheri e Granarolo. Tantissimi viaggi, nuove esperienze e aperture verso altre culture che mi hanno arricchito molto.
Grazie a ciò che sperimentai decisi due cose: che avrei aperto un nuovo locale, il Regina di Quadri, e avrei accettato l’invito di stimati colleghi, in primis Gino Fabbri, tentando l’esame di ingresso all’Accademia Maestri Pasticceri Italiani. Lo feci per tante ragioni: il primo perché costituiva un riconoscimento che “certificava” il lavoro che avevo fatto, il secondo perché era una grossa sfida. Sono riuscito a realizzare i miei intenti, per fortuna.
Nella gestione di attività come le tue possono capitare occasioni divertenti…
Di episodi ce ne sono tantissimi, uno dei più divertenti e strani è stato la richiesta, da parte del gruppo Maccaferri, di organizzare un team building per i suoi manager. Vedere quei professionisti incravattati nell’ardua “mission” di realizzare un tiramisù è stata un’esperienza simpatica e piena di brio. Il mio è un lavoro che non si propone mai identico a se stesso, in Turchia realizzai un body painting a base di cioccolato sul viso di alcune modelle, a Singapore – città che amo molto e in cui ho avuto la fortuna di lavorare a lungo – portai i miei panettoni guadagnandomi l’ammirazione e l’interesse del maestro Kenny Kong: una delle soddisfazioni più impor- tanti che possa avere un professionista è veder riconosciuto il proprio lavoro da chi, ad altissimi livelli, fa la tua stessa professione.
Perché Regina di Quadri?
Casualmente. Con il mio grafico cominciammo a pensare ai nomi più appropriati a una attività come la mia, scartammo tutti quelli che non mi piacevano e alla fine rimase Regina. Cercavo qualcosa da associare quando per caso sentii apostrofare un mio dolce: «Veh che bello, sembra un quadro!». Fatto. Regina di Quadri. Le carte non c’entrano, ma l’arte sì: da tempo le mie collaborazioni con Marino e Paola Go- linelli mi hanno dato la possibilità di realizzare dolci magnifici, in cui ho potuto davvero realizzare la mia creatività e fantasia: la parete di cioccolato che preparai per loro in occasione di Artefiera, mi riempie ancora oggi di orgoglio. Per questo penso che pasticceria e arte siano strettamente connesse: la differenza è che la mia è un’arte che si può mangiare.
La pasticceria moderna deve molto alla Francia, perché?
La Francia crede molto nei dolci, li rinnova continuamente, anche i suoi grandi classici – come il Saint Honoré, per esempio – sono rivisitati mille volte pur rispettandone i cardini principali. Non è una questione di superiorità tecnica o di ingredienti – che al contrario spesso sono di provenienza italiana –, quanto di tempo, di frequentazione e di risorse economiche che sono investite nel settore più che in Italia. Un francese mangia dolci tutti i giorni ed è disposto a pagarli anche cari, questo innesca un sistema di aspettativa e di ricerca maggiore che si è tradotta in una scolarizzazione del pasticcere che per essere riconosciuto tale (Mof) – come accade anche in Austria e in altri Paesi – deve superare un duro esame di Stato. In Italia non siamo a questo li- vello di professionalizzazione, credo che ci arriveremo presto, ma al momento basta “saper fare dolci” per essere chiamato pasticcere, ma la realtà è cosa molto diversa.
I tipici dolci estivi?
I dolci da forno e la biscotteria in generale perché si accompagnano a bevande fredde come il Chai Latte. I dolci a base di frutta fresca di stagione, tipo una semplice ma mai scontata Crostata, i Semifreddi e le torte gelato all’italiana. Nella fascia delle torte moderne la Torta Tahiti, con la fragranza della bavarese alla vaniglia bourbon e la freschezza dei frutti di bosco.